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Un’opera di forte impatto emotivo ed attualissima, che a più di 50 anni dalla sua esecuzione lascia aperto il campo a varie interpretazioni.
Questo quadro mi ha sempre emozionato. Al primo impatto vien subito da pensare ad una metafora che richiama il passaggio dalla vita terrena verso l’ignoto dell’aldilà.
Questo passaggio è, in un certo senso, reso evidente dalle figure nere in primo piano che, man mano che si allontanano, schiariscono, diventano evanescenti e leggere.
Un destino ineluttabile? Era questo il messaggio di Voltolino? Ma perché chiamarlo “Esodo” e non, allora, “Passaggio”? Perché un esodo dalla vita alla morte?
Fontani non ha certo intitolato questo quadro importante senza aver ben chiaro cosa il termine significasse e come il nome dovesse ben adattarsi al suo dipinto. Etimologicamente la parola esodo significa allontanamento, fuori dal cammino.
Ma quale cammino e verso dove?
La Bibbia ce ne parla con riferimenti a esodi ben noti. Anche Chagall ne dipinse uno, coevo peraltro, dalla chiara evocazione dell’esodo ebraico.
Non è questo il senso di questo quadro, non ci sono simboli, come in Chagall, che possano rimandarci direttamente alla cristianità. Questo dipinto è terreno, le figure seguono un percorso, vanno. Vanno via, vanno oltre. E se la risposta fosse che vanno via dalla vita, vanno oltre la vita, vediamo che vanno anche verso la luce.
Certo che, se fosse stato dipinto oggi il richiamo ai tanti esodi di disperati in cerca di vita migliore sarebbe fin troppo evidente. Addirittura, potremmo anche pensare a quanto, in epoca pandemica, l’esodo, inteso come fuga sia davvero attuale.
Succede ai capolavori quando sono immortali.
Ma a noi rimangono i suoi colori, i suoi tenui rosa e azzurro che si rarefanno, si lasciano alle spalle il nero, l’ombra, il marrone della terra. Ed è un percorso collettivo, massiccio. Non c’è l’uomo. C’è l’umanità intera.
© Maria Gabriella Bassi
Pittrice ed ex allieva del Maestro
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Graziosa opera dal tratto pulito ed essenziale, al limite tra grafica e pittura. E’ una delle donne di Fontani così caratteristiche, in riva a un mare estivo per niente intristito dal colore nero.
Questa graziosa tempera fu pubblicata a piena pagina il 3 luglio del 1960 su Il Tirreno, quotidiano livornese.
Fu un anno importante alla vigilia del boom economico, quando una buona vacanza non era improponibile come poteva esserlo anche solo cinque anni prima, ancora sotto l’influsso nefasto del dopoguerra. Televisori e utilitarie erano entrati nella vita di molti italiani, esattamente come le prime vacanze estive, non più appannaggio esclusivo delle classi più abbienti.
Questa bionda e longilinea ragazza fa pensare però a una straniera, una nordica probabilmente, che al succinto due pezzi della bagnante sullo sfondo preferisce una mise più castigata, in grado di proteggere la sua bianca pelle delicata. Dalla spiaggia sta addirittura venendo via, probabilmente per il sole troppo cocente per lei, nonostante un vicino e disponibile ombrellone. Fin qui un’analisi degli elementi della scena, soggettiva e non vincolante.
L’ipotesi viene in qualche modo avvalorata da un articolo pubblicato proprio quel giorno sul quotidiano livornese che parlava della Maremma e del Golfo del Sole come meta gradita a molti stranieri .
Quello che è importante ed interessante notare è che questa figura femminile, decentrata sulla sinistra ma bilanciata dai numerosi elementi sulla destra compreso il “peso” del mare nero, racchiude l’ideale della figura femminile di Fontani, a partire dalle figure muliebri che dipinse nella prima giovinezza: sempre donne dalla fisicità importante, alte, sinuose, esili nella parte alta del corpo ma generose nelle proporzioni dalla vita in giù.
Questa bagnante inoltre testimonia, anche se in modo piuttosto contenuto, la sperimentazione delle donne con il volto allungato orizzontalmente che Fontani portò avanti a cavallo degli anni Sessanta che fecero asserire al frizzante giornalista Aldo Santini, che Fontani “schiaccia la testa alle donne di Modì”; in effetti certe educande e fanciulline degli anni 50 ed anche successivamente, omaggiano spesso Modigliani, amatissimo da Voltolino, nell’ovale del viso allungato oltre che nel collo da cigno e poteva darsi realmente che si fosse stancato di sentirselo dire. La sperimentazione fu comunque di breve durata e la nostra bagnante ha un viso triangolare ma non provocatoriamente schiacciato.
In conclusione trovo assai piacevole questa tempera, questa bella ragazza dipinta con animo leggero, curata nei particolari dell’abbigliamento, a partire dal cappello dai nastri svolazzanti per finire con una graziosa borsa con le frange, colta forse nel gesto di farsi vento con la mano, il che ci riporterebbe alla sua scarsa propensione per un clima troppo caldo per lei, pegno da pagare per godersi le spiagge dorate ed il mare del Bel Paese.
La pittura a volte è anche leggerezza e disimpegno, come appunto una vacanza estiva.
©Adila Fontani
Archivio Voltolino Fontani
L’opera RELITTI partecipò alla prima mostra eaista a Firenze nel 1949 ed è stato scelto come emblema dell’Eaismo (Era Atomica Ismo) alla mostra dei pittori eaisti presso il Museo Civico Fattori a Livorno, in occasione, nel 2018, della celebrazione del settantesimo anniversario della fondazione del movimento, di cui Voltolino Fontani fu senza ombra di dubbio l’ispiratore e l’instancabile divulgatore.
“Il dipinto “Relitti” di Voltolino Fontani del 1948 riproduce, secondo i canoni del manifesto eaista, l’orrore dello sterminio degli zingari avvenuto nel 1944 ad opera dei nazisti. L’opera fu esposta alla prima mostra eaista, tenutasi a Firenze (Casa di Dante) nel 1949.
Il tema del quadro è chiaramente quello della strage delle popolazioni Rom e Sinti che secondo il progetto di pulizia etnica nazista dovevano, come gli ebrei, scomparire completamente dalla Germania. Testimonianza dirette riportano che in una sola notte fra il 2 e il 3 agosto 1944 al lager E del campo di Birkenau 2897 fra donne, uomini e bambini furono sterminati.
Il riferimento certo è il tipico carrozzone usato dai Rom come abitazione, con il quale gli zingari, assolutamente ignari del loro destino, vennero rinchiusi nei campi, lasciando le famiglie riunite e la loro vita apparentemente inalterata, contrariamente agli altri prigionieri.
L’orrore della tragedia è ben visibile nei colori freddi e cupi del cielo, nella figura, probabilmente maschile, scheletrica e contorta in una posa innaturale in primo piano su quella che sembra una montagna di ceneri, e nella figura di donna evanescente in secondo piano, già quasi uno spirito, a rappresentare lo strazio delle intere famiglie zingare gassate e bruciate nei campi di sterminio.
Coerentemente con quanto esposto nel manifesto Eaista, l’artista in questa opera non vuole narrare solo la tragedia, ma piuttosto la sofferenza che tale tragedia ha generato, non indulgendo in inutili dettagli ma limitando la sua descrizione a dei simboli evocativi, rifuggendo ogni retorica e cercando di ridurre il messaggio all’essenziale. Il risultato è un’opera toccante, piena di pathos, ma che nella sua essenzialità non è affatto “impenetrabile” ma anzi risulta portatrice di un chiaro messaggio di compassione e di condanna. Nel quadro però non c’è nessun segno di speranza o di redenzione, solo rassegnazione, dolore e sconforto.
La considerazione che si può fare di questo straordinario dipinto è la incredibile sensibilità con la quale Fontani racconta questo particolare aspetto della guerra, del quale non si è parlato molto nel dopoguerra. Ma lui nell’immediatezza dei fatti ha voluto soffermarsi su questo particolare genocidio, dimostrando di avere la capacità di ottenere informazioni (utilizzando gli strumenti a disposizione, oppure disponendo di qualche testimonianza diretta) e la volontà di divulgarlo in tutto il suo orrore. Ancora una volta si è dimostrato “avanti” nelle sue scelte artistiche, ancora una volta ha dimostrato in quest’opera la sua capacità di entrare nei fatti pur essendone sconvolto e di saper raccontare la tragedia che essi lasciano nell’animo dell’artista che li divulga con la potenza della pittura che sa produrre per lasciare un segno indelebile nell’osservatore.”
©Maria Grazia Fontani
Archivio Voltolino Fontani
Questa volta i commenti al quadro sono meno dettagliati delle altre volte ma sono due in quanto le diciassette sillabe di un Haiku (il breve componimento della poesia giapponese) che nascono dalla visione dell’opera a loro volta sono sinteticamente ma efficacemente commentate insieme all’opera stessa, una visione del mare di Livorno assai suggestiva dove la luce è la protagonista.
Schegge di luce
Su un mare accecante.
E poi il tramonto
© (A. Fontani)
“Schegge di luce….. Mare accecante” …. Immagini squillanti e dalla ammirevole potenzialità onomatopeica per proporre scenari vivaci e straordinariamente luminosi al limite della fantasia. Sul parallelismo dell’immagine accostata, del grande papà Voltolino Fontani che ripone l’effetto empatico nel tratto approssimato ma deciso fino alla chiarezza.
Autore: © Enzo Tobia
Il titolo di questo grande quadro giovanile è stato tratto dal gallerista Romano dal verso finale della poesia autografa sul retro della tavola, ma è probabile che esso abbia partecipato col titolo “Due fanciulle” ad una mostra a Milano nel 1941 presso la galleria “Piccola Mostra”; partecipò anche ad altre esposizioni, di cui merita essere ricordata la grande antologica del 1963, presso la Casa della Cultura di Livorno. L’atmosfera è mistica e spirituale, in perfetta sintonia con molte opere giovanili, in particolare con “La canzone degli anni perduti” di cui quest’opera rappresenta una sorta di citazione.
“…..Protagoniste del dipinto sono due giovani donne dal fisico atletico, messo in evidenza dall’abbigliamento avvolgente; sono donne dalla spiccata femminilità, realizzate a grandezza quasi naturale.
Gli abiti sono particolari e dai colori vivaci; la ragazza a sinistra, dai capelli scuri, ha un lungo abito blu con alcune sfumature di tono ed ha in mano un tralcio di fiori, mentre l’altra, a destra, è castana ed indossa una tuta rosa con mantello chiaro che ha per chiusura una collana di fiori, sul palmo della mano tiene un altro fiore, simbolico e di scultorea grandezza.
Le ragazze sembrano danzare tra loro e scambiarsi al contempo i fiori. Ai loro piedi c’è un invaso d’acqua, nel quale galleggiano altri fiori. La scena è ambientata all’interno di un cimitero, riconoscibile dal candido marmo della cappella funebre posta in alto a sinistra, mentre sulla destra l’equilibrio compositivo è dato dal cupo cipresso; un cielo plumbeo con tonalità violacee e blu fa da sfondo alla danza.
Fontani in quegli anni, realizza opere pittoriche, disegni ed acquarelli con simbologie religiose, quali croci, o cattedrali, ambientazioni cimiteriali, teschi, fiori, fanciulle e spesso si raffigura all’interno delle opere, talvolta come soggetto attivo che partecipa alla scena, altre volte solo come spettatore posto in disparte[1].
Il “nostro”, aveva frequentato le scuole dell’obbligo, ma poi, autonomamente, si era interessato alle letture di Rudolf Steiner[2], fondatore nel 1913 dell’Antroposofia, cioè della scienza dello spirito; secondo questa teoria l’uomo può raggiungere il mondo spirituale grazie alla crescita ed allo sviluppo interiore, essendo tripartito tra corpo, anima e spirito. Steiner inoltre era uno studioso delle opere dello scrittore tedesco Wolfang Goethe, esponente di spicco del movimento letterario dello Sturm und Drang, secondo il quale il genio deve sviluppare da solo le proprie capacità intellettuali senza regole. Pensiero che ricorre anche nella volontà di Fontani di non seguire alla lettera gli insegnamenti accademici dell’arte del suo periodo, creando così una cifra pittorica personale ed autonoma.
Steiner, trovando il suo pensiero affine a quello di Goethe, ha cercato di decifrare la simbologia occulta che si nasconde all’interno delle sue opere. L’opera di Goethe che può aver ispirato il ciclo pittorico di Fontani è la Favola del serpente verde e la bella Lilia, la più enigmatica per i suoi significati nascosti, ancora oggi molto studiata. Albergo di eterei silenzi, contiene alcuni elementi fondamentali della metafora della favola. Secondo la tesi di Steiner, Lilia è il fiore cioè il giglio-Lilium che rappresenta la saggezza, massimo risultato al quale l’uomo deve anelare dopo la vita terrena. L’uomo può vivere in tre mondi, quello astrale, cioè l’acqua che è da identificarsi nell’anima, quello spirituale cioè il regno di Lilia, identificato nel giglio, ed il mondo fisico cioè il regno sensibile. L’acqua ed il giglio sono i tramiti perchè lo spirito dell’uomo defunto possa raggiungere la saggezza e quindi entrare nel regno dei cieli. Ecco che le ragazze-spirito di Fontani si accingono a passare oltre, avendo raggiunto la saggezza ( vedi gli elementi descritti sopra, i fiori e l’acqua); tutto ciò avviene all’interno del luogo simbolo dove riposano i defunti, il cimitero, che diviene spettatore silenzioso dell’evento….”
© Valeria Falleni
Galleria Le Stanze
[1] Voltolino Fontani 1920-1976 Autoritratti spirituali catalogo della mostra a cura di Francesca Cagianelli e Giacomo Romano, ed. Otello Debatte, Livorno 2002.
[2] Rudolf Steiner (Donji Kraljevec 1861- Dornach 1925) filosofo, esoterista, pedagogista austriaco.
Interessante campagna toscana contemporanea alla sperimentazione eaista che lascia presagire la grande vocazione del pittore per la paesaggistica, vista con la sua personale ottica.
“Questo dipinto è un olio su masonite, di cm. 50X70, eseguito nel 1951: ci troviamo dunque nel momento più prolifico del cosiddetto periodo Eaista.
Colgo questa ulteriore occasione per invitare il lettore, come spesso mi è capitato di fare parlando di questo artista, ad andare oltre i confini ristretti della periodizzazione, per soffermarsi a riflettere su che cosa rappresenti la paesaggistica in Fontani, laddove il paesaggio diviene protagonista “solitario” del suo pensiero figurativo. Quella sul paesaggio è una ricerca che comincia molto prima del 1948 (data del Manifesto Eaista) e che prosegue per oltre due decenni.
Nella iniziale, quanto eroica, domanda di “senso” di tutto il periodo giovanile, periodo che può emblematicamente dirsi concluso con La canzone degli anni perduti, i riflettori dell’indagine condotta da Fontani sono puntati sui personaggi (femminili soprattutto). Anche nelle opere di quel primo momento (cosiddetto dell’espressionismo psicologico) la paesaggistica è di notevole portata ed è finalizzata soprattutto ad essere di supporto all’umanità il cui ruolo rimane indiscutibilmente centrale; in sostanza è una paesaggistica di tipo Rinascimentale, ovvero scena per l’umana rappresentazione.
Fontani si pone domande colossali in questo primo periodo, ma anche inestricabili: la domanda di “senso” è in lui radicale, coraggiosissima, ma destinata, proprio per la sua radicalità, ineluttabilmente a generare nuovi ed intriganti interrogativi. Allora, da instancabile ricercatore e sperimentatore qual egli era, che cosa prova Fontani? Svuota la scena, la priva, apparentemente, di “azione”, gli “attori” non ci sono più o quasi! E’ la scena stessa che recita la propria parte… una maniera, tuttavia, non meno profonda di scandagliare il Mondo e le sue Cose: ovviamente, in prima istanza, tra le cose non può che esserci l’umano.
Nel dipinto si osserva un paesaggio con un casolare, un pagliaio e degli alberi che fanno da sponda ad un sentiero in leggera salita. La composizione ci riporta alla iconografia dell’Ineluttabile del 1937, dove la salita, anziché ad un casolare, conduce ad un cimitero, meta dei due personaggi di nero vestiti, veri protagonisti della composizione che è resa con toni di elevata drammaticità.
In questo paesaggio del 51, viceversa, la tecnica pittorica è vibrante ed il cromatismo molto luminoso. E’ una ricerca diversa che preannuncia una tendenza all’astratto ed anche all’onirico. Non c’è dramma in questo dipinto, almeno non se ne ha l’impressione.
E’ interessante notare che tutta l’opera vive e palpita… che il paesaggio ha un propria anima e, nel suo insieme, continua sì ad indicare, come nell’Ineluttabile, un percorso convergente, ma questa volta non è, o non è detto che sia, un’indicazione, un itinerario suggerito all’uomo. E’ un paesaggio che ha valore per se stesso, indipendentemente dalla nostra presenza in questo universo. Quella rappresentata è un’espressione che ci fa uscire dalla convenzionalità di ciò che siamo abituati a vedere, e che perciò ci colpisce, ci lascia stupiti. Questo andare oltre il visibile, credo sia un atteggiamento sempre ricorrente nella poetica paesaggistica di Voltolino Fontani e questo dipinto ne è una superlativa testimonianza.”
© Giacomo Romano
Galleria Le Stanze, Livorno
Opera pienamente eaista nella sinteticità e nel riferimento alla realtà dell’uomo contemporaneo.
“Intitolata “Composizione” (o “La fabbrica”) questa opera risale al 1949, quando Voltolino Fontani aveva 29 anni. Si tratta di un olio su tavola di medie dimensioni (105X150 cm), dipinto a pochi mesi di distanza dalla pubblicazione del Manifesto dell’Eaismo che – ideato da Fontani insieme a Angelo Sirio Pellegrini, Marcello Landi, Guido Favati e Aldo Neri – fu il primo documento a livello internazionale a puntare i riflettori sul senso di spaesamento e inadeguatezza della dimensione umana a seguito dell’atomica. Il dipinto, frutto di un attento studio compositivo, colpisce per la potenza cromatica, resa grazie ai colori corposi, armoniosamente dissonanti e dalla forte valenza costruttiva, capaci di dar vita a una scena fatta di cubi, coni, linee di fuga e cilindri imperfetti. Si tratta di una tavolozza fortemente caratterizzante, elaborata probabilmente anche grazie all’incontro avvenuto alla Vetreria Italiana “Balzaretti e Modigliani” con l’artista e scenografa Benedetta Cappa, con cui Voltolino collaborò alla fine degli anni ’30 e di cui si legge l’influenza soprattutto nella resa dei celesti, dei rosa e dei gialli. Nel loro insieme queste geometrie di colori, strutturati attraverso l’abile uso compositivo del nero, suggeriscono in chi osserva un paesaggio scomposto, idealmente suddivisibile in due parti con un’immaginaria linea centrale-verticale. Sulla destra uno scenario industriale, contraddistinto dalla presenza monolitica e incombente di una fabbrica che – se non fosse per la ciminiera oltre il muraglione – potrebbe ricordare un cimitero; sulla sinistra, invece, uno spazio aperto, con campiture gialle e viola che rimandano idealmente a un paesaggio dal sapore campestre, sormontato da un gruppo di alberi aguzzi come montagne che facilmente, osservando il resto del corpus pittorico di Fontani, potremmo identificare con dei cipressi.
Al centro, nel taglio basso del dipinto, quasi schiacciata dal paesaggio industriale, si staglia una figura umana, al bivio tra una strada che entra nella fabbrica e un’altra che fugge all’orizzonte, nel punto in cui la terra e il cielo sormontato da fumi bianchi, nubi rosa e scorci di azzurro finalmente s’incontrano, all’ombra dei cipressi. Questa figura sola, stilizzata, irriconoscibile e assoluta, ritratta di schiena mentre affronta un percorso comunque in salita, rappresenta potenzialmente ciascuno di noi, in affannoso cammino verso un ineluttabile destino.
E del resto impossibile è non pensare proprio a Ineluttabile, un olio su tela dipinto da Fontani dodici anni prima, in cui un bambino accompagnato da una figura scura di donna percorre una strada dritta e in ascesa che porta verso un cimitero.
Di questo dipinto giovanile dall’atmosfera mistica e dai cromatismi cupi, riproposto ciclicamente da Fontani nell’arco del suo percorso pittorico, Composizione mantiene la componente drammatica e le tematiche del dolore, della solitudine, della fatalità.
Tuttavia nell’opera del ’49 il percorso per arrivare all’ineluttabile risulta più tormentato, meno lineare, più caotico e frastagliato.
I drammi della seconda guerra mondiale conclusasi solo quattro anni prima con lo sgancio delle bombe atomiche del resto lasciarono ferite non rimarginate e segni indelebili nella sensibilità di Fontani che visse in prima persona numerosi sfollamenti e il bombardamento della vetreria in cui lavorava.
Quel che resta in questo dipinto – ancora molto attuale a quasi settant’anni dalla sua realizzazione nel proporre riflessioni sui temi dell’urbanizzazione, dell’inquinamento, del lavoro, della cementificazione, della trasformazione del paesaggio e dello smarrimento umano – è il senso del dovere che ci suggerisce di non mollare di fronte alle difficoltà della vita.
Quella forza maggiore che ci spinge ad andare avanti, nonostante tutto.”
©Alice Barontini
Critico d’arte
Questa particolare figura datata 1959 appartiene ad una sperimentazione che vide la luce a cavallo degli anni Sessanta e riguardò esclusivamente il volto femminile.
“Che visi e colli lunghi appassionassero Fontani è noto: giovinette, educande, donne popolano tutta la sua produzione ma la novità, che fece asserire ad Aldo Santini “schiaccia la testa alle donne di Modì” in uno scoppiettante articolo su “Il Tirreno” di Livorno nel 1960, era costituita appunto dall’avventurarsi in una ricerca sulla forma del viso che da ovale come sua consuetudine, quasi una citazione costante di Modigliani (cosa che rimarrà invariata, esclusa questa sperimentazione, in tutto l’iter pittorico) si allunga orizzontalmente, in certi casi fino a diventare triangolare.
In quest’opera il processo è meno estremizzato ma tuttavia tutti gli elementi del volto hanno proporzioni “sui generis”: dal viso schiacciato agli occhi enormi, vuoti e neri; da un sopracciglio tracciato per metà alla bocca piccolissima seppure carnosa; il tutto incorniciato da una capigliatura imponente ed asimmetrica, rigida a parte la frangetta sbarazzina, di un fantasioso celeste; Fontani indulge per molte delle figure di questa particolare sperimentazione sui toni azzurri, in genere molto delicati: a volte dei soli capelli, come in questo caso, a volte anche dell’incarnato e dell’abito. Quest’opera, pur leggibile dal punto di vista del soggetto, lascia presagire, sia con le sue tonalità prevalentemente fredde che con la geometricità di tutto l’insieme, il futuro riaccostarsi del pittore verso forme e linee di sapore cubista, proprie dell’Eaismo, che sfoceranno nella produzione che definirà ‘onirica’ degli anni Settanta.”
©Adila Fontani
Archivio Voltolino Fontani
Questo quinto quadro, che raffigura un cavaliere stilizzato e il suo destriero violaceo, viene messo in relazione con il Movimento Eaista, ideato da Fontani nel 1948.
“Presentato nel 1951 alla terza edizione del famoso Premio del Golfo di La Spezia , proveniente originariamente dalla collezione della galleria Giraldi, questo quadro del periodo eaista raffigura una sorta di “Cavaliere dell’Apocalisse” che si muove lungo le praterie sconfinate di un mondo ormai disabitato.
Vi traspare un surrealismo spiccato e una partecipazione morale, spirituale e culturale a quel clima di inquietanti tensioni che si respiravano negli Stati Uniti durante gli anni ’50, terreno fertile per la realizzazione di vari film a carattere catastrofico e catastrofista di tenore post-apocalittico. Illustratore sapiente dell’era atomica, Fontani, in modo originale e pionieristico, fa partecipare la pittura a quel dibattito culturale che a livello internazionale vede la predominanza di linguaggi e mezzi di comunicazione come il cinema e il fumetto.
Si intravede inoltre l’uso di un linguaggio artistico specifico così come raccomandato e previsto nel manifesto dell’Eaismo: “Che importa se il pittore EAISTA abolirà alcune linee o addirittura un volto, o se, per esprimere un nudo, traccerà solo l’armonia lineare di un bacino o di una sola spalla? Il profano, di fronte a ciò, potrà rimanere perplesso o smarrito, potrà anche pensare che al dipinto mancano tre quarti di esecuzione, ma non potrà mai condannare l’EAISTA, in quanto il suo facile giudicare, sarà, questa volta, autentica ignoranza: infatti l’EAISTA che sia veramente tale deve, attraverso ciò che è espresso, suggerire la presenza di ciò che non si è soffermato a realizzare e il visitatore non potrà non percepirla, quella presenza”. Pertanto quella linea violacea alla sinistra della testa del cavallo può far pensare ad un albero.
Se con “Dinamica di assestamento e mancata stasi” (1948) e ancor di più con le cosiddette “esplosioni nucleari” di metà degli anni ‘50 Fontani dimostrava di dialogare con il gruppo dei nuclearisti milanesi nel coraggioso tentativo di creare un legame indissolubile tra bombardamenti atomici e crisi della pittura, in questo quadro e nei contemporanei “Paesaggi eaisti” l’artista labronico fa assumere all’Eaismo una seconda dimensione che si compendia nell’attribuzione di un’immagine iconografica all’Era atomica, con inquietanti cavalieri che incarnano l’incubo e la minaccia nucleare.”
©Federico Zucchelli
Autore di “Investire in arte moderna e contemporanea”
E’ la volta di una piccola “Campagna” del 1950, graziosa nella sua coloristica e spunto di varie riflessioni.
“Questa “Campagna” fu dipinta nel 1950, vale a dire in un periodo di grande fermento creativo di Fontani: era appena nato il Movimento Eaista, di cui fu l’indiscusso ideatore, e “nucleari”, “bruciature” e “sgocciolature” erano in gestazione.
L’opera non sfigura nel periodo in cui nasce, pur nella sua apparente facile lettura.
Quello che immediatamente colpisce è la leggerezza e l’ariosità dei colori, stesi con pennellate veloci che lasciano intravedere la tavola e parte del disegno preparatorio, ma ci sono anche una costruzione accurata, un equilibrio perfetto, sicuramente non preventivati e nati di getto insieme all’opera.
La vista è portata istintivamente dalle linee diagonali e convergenti del cielo e della terra verso un casolare appena accennato a sinistra, come se fosse quel casolare il fulcro del quadro ma è un disequilibrio apparente, annullato dalla forza equilibratrice dei cipressi, sia a destra che a sinistra, gli unici elementi scuri dell’opera che fermano il gioco delle linee creato anche dal bivio e dalla strada viola che porta, forse, a un cimitero.
A questo punto non è possibile non ricordare che Fontani a diciassette anni dipinse “ Ineluttabile”, opera importante che aprì il cosiddetto periodo dell’”Espressionismo psicologico”: percorrendo un viale in salita una donna e un bambino si avviano verso un cimitero, evocato dal muro di cinta e dai cipressi scuri sullo sfondo.
Forse anche il viale viola di questa “Campagna” porta quindi a un cimitero, suggerito allo stesso modo che in “Ineluttabile” dal muro e dai cipressi? Come interpretare allora l’altro gruppo di cipressi? Si sa però che in Toscana sono alberi di uso comune, ad esempio per delimitare proprietà, e non necessariamente sono sempre in rapporto con i camposanti, e questa potrebbe essere la caratteristica del secondo gruppo sulla sinistra.
In quest’ottica quel bivio centrale, evidenziato dalla piccola capanna dal tetto aguzzo, sembra quasi diventare il bivio tra la vita, a sinistra, e la morte, a destra, il destino “ineluttabile” che non risparmierà nessuno di noi; l’arancio brillante davanti al casolare e il viola verso il cimitero potrebbero avallare con la loro valenza emotiva questa lettura, anche in considerazione del fatto che Fontani, in tutto il suo percorso umano ed artistico, ha sempre mostrato un costante contrappunto tra tristezza e solarità, tra spiritualismo e gioia di vivere, testimoniati volta volta dalla sua particolare e vasta gamma tematica e cromatica.”
©Adila Fontani
Archivio Voltolino Fontani
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Il terzo quadro sotto la lente, “Il tristo e la fanciulla pallida”, fa parte della produzione giovanile, quella definita dalla critica “dell’espressionismo psicologico”. E’ il periodo in cui un giovanissimo Voltolino impronta su un forte misticismo e spiritualismo le sue opere, spesso ambientate in luoghi mistici e tetri, come chiese e cimiteri.
Questa prima approfondita interpretazione critica di Riccardo Rossi Menicagli la esamina rapportando “Il tristo e la fanciulla pallida” (dove “tristo” sta per “triste”) al misticismo del giovane Voltolino e all’atmosfera di sapore leopardiano delle prime opere.
“Esiste per noi tutti nell’adolescenza e nella primissima giovinezza un richiamo fortissimo che ci pone di fronte all’inquietante tematica della finibilità delle nostre singole esistenze. Infatti ogni individuo, anche lo spirito meno complesso, anche la persona meno intellettualmente consapevole, si pone in quegli anni, più o meno coscientemente, dinnanzi a questa invalicabile tematica: taluni l’affrontano con grande razionalità, altri vi si pongono di fronte meno lucidamente, con i rischi esistenziali che ne conseguono ed altri ancora, pochissimi, l’affrontano sprigionando precocemente intorno ad essa una grande energia creativa, energia che la gran parte delle volte è principalmente poetica, ma non solo.
Quindi ribadiamolo: questi ambiti destabilizzanti sono di tutti, però solo alcuni di noi li percepiscono e li gestiscono così presto con nitidezza e pochissimi altri, rarissime persone, li rendono addirittura già precoce alimento dell’arte.
Con questo brevissimo cappello, in apparenza e paradossalmente forse troppo letterario per rispecchiarsi nel generalista approccio di valutazione della branca pittorica dell’attuale Arte Visiva, vengo comunque a scrivere di un dipinto di Arte Figurativa (la pittura così era usualmente definita nel novecento), dipinto che, d’altronde, grande e problematico è il vigore poetico che ispira e trasmette.
Un’opera creata dall’allora diciottenne pittore Voltolino Fontani e cioè “Il tristo e la fanciulla pallida” del 1938 (olio su tavola di centimetri 78×95). In questo dipinto si concretizzano con potente evidenza le mie precedenti parole ed i conseguenti significati sopra espressi.
Ma da queste stesse parole subito in parte me ne affranco, parzialmente me ne discosto, pur concettualmente confermandole appieno, per affermare altresì, per attestare anche la concomitante, straordinaria forza estetico-formale che scaturisce da quest’opera indipendentemente appunto dal suo rilevabile alto e profondo significato.
Esaminiamo quindi sinteticamente l’opera: la “fanciulla pallida” con chiara intuitiva evidenza non è più esistente, ma allo stesso tempo si avvicina con una lineare movenza e si offre nel ricordo di sé al giovane “tristo”, il giovane che a sua volta nel raccoglimento esprime, esaspera e dilata mestizia e tristezza, questo grazie anche ad una staticità che emana però una sua voluta potenza, una staticità dinamica perché impaginata con intrecci geometrici dalle risultanze estetiche direi quasi scultoree (ed i vistosi basamenti a scalini su cui siede ne sono l’evidente, potenziante supporto). L’ambiente cimiteriale viene poi esasperato nella sua implicita ed esplicita tristezza con un intorno reso coloristicamente quasi magmatico e sprofondante, con quel sovrapporsi di grigi calanti e gialli biancastri, modulati verso tenui marroni vagamente rosseggianti.
Ma vi è subito un contrappunto estetico a tanta tristezza, un contraltare di luce che si profila all’orizzonte, costituito dallo sfondo dell’aurea boschiva che lo circonda. Un’aurea che invece sembra esprimere una luminosa, redentiva possibilità. Infatti i larghi, non troppo alti coni dei cipressi, sono sì crepuscolari e cimiteriali, ma si intuisce e soprattutto si vede il bagliore della possibile luce della vita, qualcosa sembra poter risorgere e del resto il simbolo cristiano posto sulla stele che si staglia alle spalle della “fanciulla” sembra testimoniarlo, anzi inconfutabilmente lo testimonia.
Altrettanto vero è che la piccola corona/ghirlanda di fiori posta a terra sulla destra della “fanciulla pallida” è più che un simbolo di avvenuta sacrificale resa, ma anche qui vi è un immediato e chiaro superiore contraltare rappresentato dal piccolo fiore/fiamma che la medesima “fanciulla” porge verso il “tristo” e che è inequivocabilmente un simbolo di una sempre possibile continuità futura.
Con l’opera il “Il tristo e la fanciulla pallida” del 1938, siamo al cospetto di un capolavoro dell’Arte Europea precedente, di poco anteriore, alla Seconda Guerra Mondiale, tragico spartiacque epocale questa guerra, uno spartiacque epocale che troppo spesso ci dimentichiamo di utilizzare in tutti i contesti dell’Arte e non soltanto dell’Arte.
Qui in questo singolo caso, invece, lo vogliamo utilizzare pienamente questo spartiacque e ciò ci permette di constatare con più facilità l’inconscia, visionaria potenza di quest’opera di Voltolino Fontani, opera che porta in sé tutti i germi della fine e della rinascita, una fine ed una rinascita che di lì a poco avrebbero purtroppo inesorabilmente travolto una gran parte del nostro mondo.”
© Riccardo Rossi Menicagli – settembre 2015 –
Scrittore
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In questa seconda analisi il giornalista Alessandro Farulli fa un originale collegamento tra questo quadro (ed altri del solito periodo) ed il famoso personaggio del fumettista Tiziano Sclavi: Dylan Dog . Che un quadro di quasi ottant’anni fa si presti ad una lettura di questo genere non è in contraddizione con la prima interpretazione, ma sottolinea come l’opera di questo maestro livornese possieda tuttora un grosso potenziale di studio e di approfondimento. L’articolo apparve nell’edizione regionale del quotidiano fiorentino “La Nazione”, il 10 maggio del 2003.
© Alessandro Farulli
Giornalista
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L’approfondimento riguarda questa volta un quadro dipinto a 18 anni, attualmente disponibile solo in una foto di archivio in bianco e nero, che tuttavia ha permesso a chi commenta un’analisi puntuale di quest’opera appartenente al periodo detto dell'”Espressionismo psicologico”
“Livorno che scompare è un dipinto estremamente interessante del primo periodo d’attività creativa di Voltolino Fontani, all’oggi conosciuto solamente tramite una bella fotografia in bianco nero, ma pur nella mancanza di colore, esso ci permette un’analisi a mio giudizio interessante. Innanzitutto bisogno sottolineare la data d’esecuzione, 1938, l’artista ha diciotto anni, eppure presenta già una forte personalità che è venuta maturando in meno di due anni, basti confrontare questo lavoro con il pur pregevole ma “scolastico” Livorno medicea “Il Bertolla” com’era nell’anno 1936, uno dei primi lavori realizzati sotto la guida di Beppe Guzzi.
La città descritta da Voltolino nel dipinto preso in esame è fortemente evocativa, quanta differenza e diversità si riscontra per esempio con Scalo Regio o I bastioni del Granduca eseguito da Ulvi Liegi nel 1922, di proprietà del Museo Civico Giovanni Fattori – Livorno, dove le accese cromie pervadono l’intera composizione dandone una lettura accostabile ad esiti “fauves”. Fontani è altro, la città avvolta dalla luce, mediterranea, non appartiene alle sue corde, in lui Livorno è pretesto per un viaggio interiore, l’ambiente assume un significato altro, recondito, d’impostazione novecentesca. Come non vedere un parallelismo interessante tra la casa sventrata sulla sinistra del dipinto e le coeve demolizioni realizzate da Mario Mafai, che in una personale del 1937 alla Galleria della Cometa, presentava questo ciclo di dipinti, dove i palazzi sventrati, nei piani di trasformazione urbanistica della Roma fascista, divenivano presenze, denuncia del regime che cancellava borghi storici della Capitale e in maniera più tacita della dittatura avversata dal pittore romano.
Così Voltolino mostra attraverso la sua acuta sensibilità, quanto accadeva contemporaneamente a Livorno, sotto il piccone demolitore fascista, che ripensava il centro, cancellando memorie storiche della sia pur giovane città, nella zona dell’Ospedale di San Giovanni o nella riqualificazione della zona retrostante la Cattedrale, dove veniva disegnata l’attuale fisionomia del Largo Duomo e della Via Cairoli.
Fontani, pittore colto e attento fin dall’inizio della sua attività a quanto avveniva fuori dalle mura comunali, esibisce una conoscenza della metafisica, delle periferie urbane di Sironi e di un certo “Novecento” anche meno conosciuto, si veda il dipinto Liguria di Alberto Salietti, esposto alla Prima Mostra del Novecento Italiano del 1926, nel quale le masse architettoniche urbane sono presenze monolitiche di città pensate più che restituite in
termini reali.
La materia pittorica di Livorno che scompare è conforme a esiti coevi; da campiture presumibilmente di grigi, si stagliano le sagome nere della bitta e della chiglia della nave, elementi evidenziati nella composizione in maniera analoga agli amati cipressi, alle volte assurti a lance come in Fine di un romanticismo (1938), quinta dell’opera riproposta in termini realistici è la Fortezza Vecchia, con i suoi bastioni e la torre di Matilde, ma ricordiamoci come pur restituendo un dato oggettivo esso rimandi al magico straniamento metafisico, si veda le molte torri campeggianti nelle Piazze d’Italia di Giorgio De Chirico. Infine, voglio sottolineare una caratteristica che mi ha sempre affascinato nel nostro autore, ovvero l’utilizzo “artistico” della firma, esibita fin dalle prime prove, in maniera “forte”, raffinatamente nervosa, ed in questo vedo un parallelo con molti lavori del viareggino Lorenzo Viani, per il quale questo era momento creativo non banalizzabile, inserito con estrema armonia sia nelle opere grafiche che nei dipinti.”
© Michele Pierleoni
Galleria Athena, Livorno
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Il primo quadro prescelto per questo approfondimento risale al 1951, cioè al Periodo Eaista.
“Questo dipinto di Voltolino Fontani del 1951 è un’opera del periodo eaista e, per quel che mi risulta, è unico nel pur variegato panorama figurativo degli anni ’48-’52. Il dipinto non è titolato e pertanto ci concede molta libertà nel ricercarne una trama, se la curiosità ci spinge a tanto, dal momento che l’opera, ricca di così tanti colori, come sempre da Fontani sapientemente armonizzati, ha già per questo una sua propria ragion d’essere.”
Un volto di donna si ricompone nella parte di destra con le forme geometriche del triangolo e del cerchio (o del semi-cerchio); questo volto appare inscritto in una edicola costituita dal nero dei capelli, sulla destra, e soprattutto, sulla sinistra del volto. La composizione risulta pertanto divisa in due parti: una parte è quella appunto che contiene la figura (edicola); l’altra, più ampia, è quella che costituisce lo sfondo e comprende sia la zona sottostante, dove si intuisce una specie di scala che sostiene tutta la composizione, sia la zona alta del dipinto costituita da una diagonale declinante da destra verso sinistra che ci propone una sorta di cielo o di orizzonte alto. Tutta questa parte del dipinto è strumentale rispetto al fulcro centrale dell’opera che è l’edicola contenente la figura femminile.
Le forme con le quali è costruito il volto, lo spazio in cui esso è contenuto e, soprattutto, un senso di pietas di derivazione picassiana che il volto stesso suggerisce, ci consentono di pensare che possa trattarsi di un tema sacro. E’ questa, a mio parere, una ripresa in chiave eaista delle grandi tematiche riguardanti la donna che sono la base di tutto il primo periodo pittorico di Fontani, periodo chiamato dell’espressionismo psicologico. Una ulteriore conferma, se ce ne fosse bisogno, di quanto il percorso artistico di Fontani, pur in continua evoluzione, sia sempre in linea con il suo pensiero e con la sua poetica.”
© Giacomo Romano
Galleria Le Stanze, Livorno